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Demansionamento-dequalificazione-risarcimento

Demansionamento e dequalificazione: risarcimento del danno

Risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione: il riconoscimento di tale diritto non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione dell’esistenza di un pregiudizio.


Un dipendente di una banca aveva citato in giudizio la medesima, evidenziando il suo demansionamento, a seguito di un trasferimento di servizio, e chiedendo dunque il risarcimento del relativo danno, anche alla salute, sofferto.

Il giudice di primo grado aveva, sì, accertato il demansionamento ma aveva del pari ritenuto di dover escludere la sussistenza del mobbing denunciato, che invero anche aveva evidenziato il ricorrente; per tale ragione, aveva dunque respinto la domanda risarcitoria per mancanza di prova di un danno derivante dall’inadempimento datoriale se non con riguardo al danno biologico quantificato comunque in minima parte.

Dello stesso avviso si era poi mostrata la Corte di appello di Messina, rigettando il gravame, così come la Corte di Cassazione, che del pari ha ritenuto insussistenti le ragioni del ricorrente.

In particolare, i giudici hanno ricordato che, in tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell’esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno.

Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale.

Si tratta di prova che può essere offerta con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento ed assume in tal senso rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) si può, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno.

In definitiva escluso che il pregiudizio sia in re ipsa collegato all’esistenza della dequalificazione, il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, lesione idonea a determinare la dequalificazione del dipendente stesso, deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa.

Cass. civ., Sez. Lav., 16 dicembre 2020, n. 28810

Redazione A-I.it Avvocati Associati

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